Per le statistiche il dato non è ancora da registrare, l’osservazione diretta però fornisce già indicazioni che non ammettono equivoci e incertezze. Un numero consistente dei romeni arrivati in questi anni nel nostro paese sta facendo, o ha già fatto, il viaggio di ritorno; famiglie intere lasciano l’Italia e rientrano in Romania per restarci ben più delle due o tre settimane di ferie che abitualmente si concedevano ogni anno per rivedere i parenti rimasti in patria e farli incontrare con i figli più piccoli, che fino a quel momento li avevano conosciuti solo attraverso le foto e il racconto dei più grandi. È una realtà che ha sorpreso molti, soprattutto perché l’integrazione tra italiani e romeni immigrati da noi si è rivelata tra le più riuscite, sia per affinità culturali e religiose sia per una relazione storica che all’inizio del secolo scorso ha visto per alcuni decenni una folta comunità italiana (di veneti e friulani, per la maggior parte) lavorare e vivere in Romania. Un legame forte che ora si sta spezzando. Un fatto inaspettato, dicevo, tanto che, dopo aver pubblicato sull’argomento un’inchiesta per il settimanale Pagina 99We (lo scorso 5 luglio), sono stato invitato a parlarne al Caffè di Rai Uno Mattina dove si è sottolineato che il “fenomeno” è in controtendenza e che, anche per questi stranieri che vivono accanto alla nostra porta da almeno quindici anni, l’Italia è diventata non più la meta finale della loro ricerca di lavoro e di condizioni di vita migliori ma una terra di passaggio, un passaggio magari più lungo di quello che si attendono gli immigrati più sfortunati gettati dai loro malmessi barconi sulle rive italiane ma pur sempre una soluzione temporanea, in vista di meglio. È il risultato della crisi, ovviamente. Ma anche il segnale della perdita di “appeal” del nostro paese, delle troppe incertezze che gravano ancora sul suo futuro, del restringersi delle sue prospettive e della permanente fragilità delle regole che dovrebbero presidiarne la vita civile, come confessano molti di quelli che si accingono a nuove tappe in paesi che (vero o falso che sia) promettono ancora occupazione come la Germania e l’Inghilterra, dove – dicono, perché l’hanno saputo dagli amici che li hanno preceduti – l’ambiente è umanamente più freddo ma le garanzie sul lavoro e le norme di comportamento sociale sono rispettate, senza i mille marchingegni evasivi ed elusivi che si vedono da noi.
Le statistiche ufficiali, dunque, non registrano ancora nulla. Negli ultimi anni, stando ai dati dell’Istat, i saldi dei flussi in entrata e in uscita non evidenziano grandi sommovimenti, la Fondazione Migrantes (un organismo della Cei che si occupa degli spostamenti di uomini e donne nel mondo) commenta il fatto ricordando, però, che in gran parte la stabilità dei numeri è determinata dai ricongiungimenti familiari e dalle nascite di bambini romeni nel nostro paese. Ed è stato lo stesso direttore generale della Fondazione, don Giancarlo Perego, che alla mia domanda di tentare una quantificazione dell’esodo dei romeni ha stimato la cifra di 150-200 mila partenze, una valutazione frutto dell’osservazione di tanti testimoni privilegiati e che trova una facile conferma della sua plausibilità: basta recarsi nei tanti centri medio – piccoli sparsi in Italia nei quali si sono insediate e cresciute comunità romene numerose e, guardandosi attorno, ascoltare le persone che raccontano di se stesse che ancora “resistono” e dei propri conoscenti che invece hanno già deciso di andarsene; basta cercare nelle scuole dove si moltiplicano le richieste di nulla osta di trasferimento per gli scolari, oppure visitare i centri storici che tornano ad essere spopolati, dopo che le case abbandonate dai vecchi proprietari, spostatisi sulla spinta dell’espansione dell’edilizia economica e popolare nelle periferie cittadine, erano tornate ad essere abitate da questi nuovi cittadini, spesso capaci di renderle nuovamente agibili con la perizia di un mestiere – il muratore o il carpentiere – appena appreso sui nostri cantieri.
Negli schedari degli uffici comunali le cancellazioni anagrafiche a tutt’oggi sono poche, appena un’increspatura in su rispetto al normale; una delle ragioni è che molti lavoratori, quelli regolarizzati, hanno ancora qualche mese di “disoccupazione” da utilizzare, e molti altri se ne vanno trascurando di comunicarlo, qualcuno per un estremo atto di fiducia: l’augurio che l’iscrizione possa tornare a essere utile prima o poi. I numeri, però, si gonfieranno tra qualche mese, quando le aule si svuoteranno di una quota consistente di ragazzini romeni, le famiglie avranno meno badanti e colf tra cui scegliere, i cantieri edili meno lavoratori tra quelli (ed è un aspetto da non sottovalutare) formatisi professionalmente in questi anni, parecchi dei quali arrivati ormai a offrire prestazioni apprezzate al pari di quelle dei nostri capi mastri.Fuori dal conto ci sono poi tutti gli altri che non hanno lasciato l’impronta in nessuna registrazione; se, infatti, il numero ufficiale dei romeni che risiedono da noi si aggira intorno al milione, quello reale è più alto del doppio, come ha ammesso senza difficoltà alla mia richiesta di confermare l’ipotesi Romulus Popescu, il presidente della sede milanese di un’associazione che si preoccupa della salvaguardia delle tradizioni culturali dei romeni emigrati e della tutela dei loro diritti. È in questa ampia sacca di lavoratori senza volto ufficiale e carta di identità italiana che sta formandosi il grosso del flusso di ritorno, un popolo in movimento che lasciamo partire, sbagliando e forse non potendo fare altrimenti, senza rimpianti.
L’impressione è che ci troviamo di fronte a una nuova occasione mancata e che da queste partenze abbiamo da rimetterci tutti. Don Giancarlo Perego, conversando con me, ha elencato una serie di ricadute negative (dalle classi che diminuiscono e i posti di insegnamento che si riducono all’impoverimento del nostro welfare familiare); ma la notizia più preoccupante che il direttore di Migrantes mi ha dato riguarda l’aumento del numero dei suicidi di bambini in Romania, sulle cui cause inciderebbe molto il disorientamento per questa ricorrente situazione di precarietà provocata dalla doppia emigrazione, prima dalla Romania in Italia e adesso lungo la rotta inversa. Di una crisi di identità dei più giovani, dei romeni italianizzati di seconda generazione, mi ha parlato anche Popescu e tutti i romeni che ho sentito nell’inchiesta mi hanno raccontato che per molti l’unica remora al ritorno è proprio l’atteggiamento dei figli, dei più piccoli che soffrirebbero troppo nel cambiare ambiente e amicizie. È ancora nella mia memoria, del resto, il pianto disperato di una bambina, figlia di una coppia di romeni miei vicini di casa (abito ad Alatri, una cittadina che è stata uno dei punti d’approdo privilegiati dei lavoratori romeni, per le centinaia di piccole imprese edilizie in cerca, negli anni passati, di mano d’opera con modeste “pretese”) il giorno in cui, finita la scuola, dovette andar via avendo appreso che non sarebbe rientrata alla ripresa dell’anno scolastico.
Ma il fatto deve essere visto anche da un altro punto di vista, più generale. C’è una specie di storia simbolo che può essere la risposta alla domanda cruciale su chi ci guadagna e chi ci rimettedall’addio dei romeni. L’ho conosciuta a Celano, un paese abruzzese a pochi chilometri da l’Aquila, che ha attratto immigrati di varia provenienza per le possibilità di lavoro offerte dalle tante aziende della sottostante piana del Fucino e che perciò (con Alatri) è stato uno dei luoghi della mia inchiesta per Pagina 99We. Protagonista, un istituto onnicomprensivo frequentato da ragazzini di undici nazionalità, la maggioranza dei quali romeni. Le sperimentazioni didattiche di questa scuola – svolte sotto la guida del dirigente scolastico Abramo Frigioni – hanno ricevuto svariati riconoscimenti per la progettualità innovativa. E riguardano tutte l’ideazione di nuovi percorsi di “integrazione” o, come preferisce dire il preside, di “interazione”. Qualcosa che vale per tutti e in ogni occasione. Nel conto dei vantaggi si può certo discutere su chi ne abbia avuti di più, se gli italiani o gli stranieri. Ma è certo che nessuno può dire di esserne rimasto escluso.
Fonte: http://dettagli-a-parte.comunita.unita.it